LA MORTE RACCONTATA AI BAMBINI

Chi ne ha più paura? I grandi o i piccini?

Liberiamoci dal luogo comune secondo cui non si deve raccontare ai bambini della morte, perché considerata un argomento troppo complesso … quasi tabù. 

Fin da piccola l’idea della morte non mi è stata sconosciuta. Non per esperienza diretta ma filtrata attraverso i ricordi e i racconti della mia mamma la quale, perdendo prematuramente un papà e tre fratelli, ha saputo trasmettermi un senso di familiarità, come se vita e morte, nel caso delle nascite avvenute in casa e delle lunghe veglie al defunto, vissuti alternativamente all’interno delle mura domestiche, acquisissero un senso di intimità e naturalezza. 

Dal momento che un tempo, i casi di mortalità erano maggiori e che soprattutto nelle famiglie rurali la generazione dei nonni conviveva con quella dei nipoti, era normale per un bambino assistere al progredire di una malattia e alla morte come processo ordinario. Una frase che durante la mia infanzia sentivo dire dagli adulti era: “andiamo a far visita al morto”, quasi come se ci si preparasse per andare a trovare qualcuno facendogli una visita di cortesia. 

Il racconto che di cui parlo oggi si intitola “I pani d’oro della vecchina” (A. Gozzi & V. Lopez, 2012 – Ed. Topipittori) in cui la Morte decide di recarsi a casa di una vecchina per portarla via con sé. La vecchina però è sapientemente impegnata ad impastare dentro un grande paiolo, frutti, cannella, miele e zucchero a velo per cucinare tante golose pietanze per i bambini del paese. La vecchina, vedendola, domanda: “O Signora Morte, ma perché hai tanta fretta? Non potresti aspettare solo un poco? Sto preparando il ripieno del Pane Dolce di Natale, concedimi solo il tempo di finirlo … almeno assaggia quel che ho preparato, giusto per dirmi se manca un po’ di miele”. E senza accorgersene la Morte si ritrova un cucchiaio di legno in bocca, sporco di morbida pasta, che la lascia confusa e stordita. La vecchina approfittando dell’attimo di smarrimento della Morte, le chiude la porta in faccia, invitandola a tornare la settimana seguente, promettendo che le avrebbe fatto assaggiare un’altra delizia. Quando la Morte torna, si sente quasi allegra all’idea di sgranocchiare il dolce promesso, ma allo stesso tempo turbata: “La morte non aveva mai conosciuto l’allegria e non era mai andata da qualcuno che l’aspettava” (Gozzi, Lopiz, 2012). 

È come se in questo racconto, come accadeva un tempo, la Morte fosse un ospite come un altro, senza tutta la carica connotativa di mistero e censura che la colloca nella civiltà occidentale contemporanea.

I bambini che osservano la morte da un’opportuna distanza non ne hanno paura, forse ne sono un po’ spaventati, ma soprattutto incuriositi e attratti dall’argomento, cercando di acquisire dagli adulti qualche informazione rispetto a qualcosa che non riescono a rappresentarsi, con il risultato, spesso, di ottenere spiegazioni elusive e confuse, o di non ottenerle affatto. Il maldestro tentativo degli adulti di preservare i piccoli dalla sofferenza e dalla paura, salvaguardandoli da ogni minima frustrazione, si risolve poi nel lasciarli soli a gestire grandi interrogativi difronte a scene di morte mostrate in TV, ad un animale esanime trovato per strada o dinnanzi alle inevitabili perdite che la vita ci presenta. 

“La morte non deve intervenire nella vita, non deve rappresentarsi. Conformemente alle altre società occidentali, anche in quella italiana la crisi della morte ha portato con sé la crisi dei riti della morte. L’effetto principale è stata la destrutturazione delle fasi, dei tempi e dei luoghi della morte … Infatti, ricordare la morte è uno dei più forti e duri tabù della contemporaneità, che ha portato alla quasi assoluta rimozione del lutto, per cui l’elaborazione del lutto non ha più diritto all’ esistenza” (Landuzzi, 2012, p.264-265). 

Oggigiorno la nostra società vive un vero e proprio tabù nei confronti della morte, del lutto e anche della malattia, nel tentativo disperato di esorcizzare la sofferenza e l’angoscia che inevitabilmente ne potrebbe derivare. Ciò che angoscia i bambini però è il timore dell’abbandono, della separazione e dell’assenza delle persone che si prendono cura di lui. I bambini temono ciò che non conoscono, temono l’esclusione, e per ogni domanda a cui non ottengono risposta, o a cui ottengono risposte illusorie è come una porta che si chiude davanti e che mina fortemente il patto di fiducia tra lui e l’adulto. I bambini “…cercano risposte sincere a domande difficili. Cercano qualcuno che sia padrone delle sue paure, delle sue fragilità e che sia in grado di affrontarle ma, soprattutto, di rispondere, perché le nostre paure e fragilità sono anche una planimetria, intorno alla quale i nostri figli costruiscono la loro personalità” (Verardo, 2017, p.9).

Il più delle volte però il bisogno di proteggere i bambini in nome della loro vulnerabilità ha forse il doppio obiettivo di proteggere anche noi stessi dal dolore, evitandoci di dover affrontare argomenti che temiamo, ma i bambini sono molto sensibili agli stati d’animo degli adulti e avvertono ciò che non viene esplicitamente detto. 

L’adulto non può evitare in alcun modo che il bambino soffra e non può nemmeno ostacolare la verità, può semplicemente stare con lui perché il processo del lutto non è un percorso da compiere in solitudine.

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